Se bruciasse la città...
Articolo in: - Editoriali
Saronno
Loredana Limone 07/03/2013
E non ci potevo credere che quelle foto che squarciavano lo schermo freddo del mio apparecchietto e lo rendevano bollente fossero di Napoli.
Napoli che bruciava: bruciava sogni, illusioni, riscatti, futuro.
«E invece sì, credici e cerca di prendere sonno» mi diceva una vocina. «Non ti ricordi Roma? Una suonata di lira e tutto passa, passa alla storia, ed è pure cosa buona. A Napoli c’è il mandolino. Te lo ricordi, almeno il mandolino? Tutto finirà a tarallucci e vino, e qualche tuo collega ci scriverà pure un romanzo con protagonista un maldestro malavitoso che ha fatto scoppiare un petardo tardivo.»
No, non me lo ricordo, ai tempi di Roma non ero nata, il mandolino non me l’ha suonato mai nessuno e i taralli sugna e pepe non li cerco nemmeno: che sapore avrebbero, qui?
Mi ricordo, invece, che su quell’area che sta bruciando c’era morto mio nonno, operaio all’Italsider, di bronchite, e con lui chissà quanti altri, perché negli anni Trenta si moriva a trent’anni e si lasciavano i propri figlioli, presto affamati e scalzi, a un futuro imminente di guerra e distruzione. Me lo ricordo nei racconti nostalgici di mia madre, che ne descriveva le spalle imponenti e le mani callose, operose, dove compariva anche la cinghia quando necessario (necessario?), e la paura di sei bambini che andavano a nascondersi sotto un lettone sempre meno capiente.
E mi ricordo di quando mia nonna andò a raggiungerlo, quel marito che non era stato mai socialmente alla sua altezza, lei figlia bruttina di un orefice: il corteo funebre sul lungomare di Bagnoli che generosamente offre pure ai poveri una cartolina di mare, inquinato o no cosa importa. Noi, nipoti vomeresi un poco snob, guardammo Coroglio, l’area dismessa, gli altiforni comatosi e non potemmo evitare di sorridere all’anima del nonno che aveva già le braccia aperte aspettando la sua sposa e dentro gli occhi buoni la speranza di un mondo migliore, o almeno una città migliore. La sua, e della sua progenie.
Ho pensato spesso a quel nonno sconosciuto, chi non c’è si pensa con più forza.
Servono i pensieri? Arrivano?
Ho pensato a quanto avrà supplicato Chi di dovere, lui e l’intera squadra dei nonni dell’Italsider, perché non tutto fosse stato inutile. Ho pensato a come avranno gioito quando qualcuno finalmente ha ridato loro corpo e dignità creando proprio lì un luogo importante e invidiabile, dove la scienza diventasse una storia d’amore, di menti, di viscere e di carne; di terre che si uniscono, di radici che s’intrecciano.
Ma anche, più pragmaticamente, un luogo di posti di lavoro dove ogni anno convogliano tantissimi visitatori, che portano interesse e soldi, e ripartono con le curiosità soddisfatte e un messaggio buono e positivo, pulito e intelligente, da diffondere, stimolati e arricchiti mentalmente. Perché la Città della Scienza è – sì, continuo a parlarne al presente – arricchimento del patrimonio nazionale.
Finché era lì e faceva il suo mestiere, non so quanti ne fossero consapevoli. Oggi ce ne rendiamo conto tutti.
«Dormi» ha insistito la vocina, «ché nemmeno Massimo Ranieri ci pensa più a vincere le fiamme per quella ragazza che rivedeva ogni notte accanto a sé. Una vita fa.»
Non aveva torto.
Ma allora cos’è questo fuoco che mi brucia dentro?
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